martedì 6 maggio 2008

Sulla riforma del contratto

Due articoli per capire un po' di più.

Lavorare di più, contrattare in azienda

di Sara Farolfi
su Il Manifesto del 01/05/2008

È pronto il testo sulla riforma del modello contrattuale. Segreterie unitarie di Cgil, Cisl e Uil la prossima settimana. Il contratto nazionale viene ridotto al «minimo», e gli aumenti salariali saranno da contrattare in azienda. Mentre Berlusconi prepara la detassazione secca degli straordinari
I sindacati accelerano sulla riforma del modello contrattuale. I tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil hanno definito e completato il testo comune che sarà alla base della discussione con Confindustria, oggi dovrebbero annunciarlo e già per l'inizio della settimana prossima sono previste le segreterie unitarie delle tre confederazioni. Guglielmo Epifani, alle prese con il dissenso interno della categoria dei metalmeccanici e delle aree programmatiche Lavoro e società e Rete 28 Aprile, ha scelto la strada dell'accelerazione. Su una materia, la contrattazione, che costituisce l'essenza stessa del sindacato. Il cambiamento è poderoso e deciderà delle politiche salariali (e non solo) per almeno il prossimo decennio. Con gli accordi del luglio 1993, le politiche contrattuali furono informate al principio della stabilità monetaria e al contenimento dell'inflazione. Allora l'obiettivo era l'ingresso in Europa, il pegno da pagare (dai soliti noti, naturalmente) fu quella moderazione salariale che ha portato i salari italiani ai livelli più bassi di tutta Europa. Oggi l'obiettivo è, accanto al miglioramento delle condizioni di reddito, «la competitività e produttività del nostro sistema imprenditoriale». Al contratto nazionale resta la difesa del potere d'acquisto, gli aumenti salariali saranno da contrattare in azienda (legati ai parametri della produttività, qualità, redditività, efficienza e efficacia). Ma la contrattazione di secondo livello, come hanno mostrato diverse ricerche (ultima quella del Censis), interessa una fetta piccola del sistema imprenditoriale. Di contrattazione territoriale - a cui oggi si richiamano i sindacati con le parole, Rsu in tutti i posti di lavoro - si parlava già nel '93 e, salvo pochi settori, del tutto inutilmente (del resto Emma Marcegaglia ha già parlato chiaro: per noi non esiste). Nella gran parte delle imprese italiane, che sono sotto i 10 dipendenti, non c'è neppure il sindacato. A questo si aggiunga l'offensiva berlusconiana che porterà sul tavolo del primo consiglio dei ministri la detassazione secca degli straordinari e di tutte le voci del salario variabile (premi e incentivi). Ossia l'allungamento di fatto dell'orario di lavoro ( per guadagnare di più bisogna lavorare di più ), che nelle intenzioni del nuovo governo non avrà alcun riferimento alla contrattazione aziendale. Puntando in questo modo al pieno dispiegarsi del rapporto individuale tra azienda e lavoratore. Il nuovo modello contrattuale I contratti (pubblici e privati), oggi divisi in un quadriennio normativo e due bienni economici, saranno triennalizzati. La difesa del potere d'acquisto viene ancorata al concetto di «inflazione realisticamente prevedibile». Nel '93 si chiamava «inflazione programmata», e il risultato (complice anche il costante ritardo nei rinnovi dei contratti nazionali) è sotto gli occhi di tutti. Per misurare l'inflazione, i sindacati pensano all'indice europeo (a cui andrebbe aggiunta la spesa per i mutui), oppure al deflattore nazionale dei consumi interni: la cosa sarà comunque oggetto della trattativa con le imprese (che non sembrano per la verità molto disponibili). Viene corretto anche quel passaggio del testo - da molti letto come un'apertura alla possibilità di deroghe - in cui si dice che «i contratti nazionali dovranno prevedere, in termini di alterità, la sede aziendale o territoriale». Gli aumenti salariali saranno relegati alla contrattazione di secondo livello - aziendale e territoriale (regionale, di filiera, comparto, distretto e sito). Per tutti i lavoratori scoperti, verrà definita a livello nazionale una sorta di «indennità di perequazione», come nell'ultimo contratto dei metalmeccanici. Decisive, vengono considerate in casa Cgil, le linee guida su democrazia e rappresentanza. I sindacati puntano sulla certificazione, e dunque sulla certezza, della rappresentanza. Il luogo deputato sarà il Cnel e la certificazione delle iscrizioni sarà fatta mediante l'Inps. Il modello somiglia a quello del pubblico impiego, anche se l'accordo sarà per via pattizia (tra le parti) e non per via legislativa. Per misurare la rappresentatività (quali organizzazioni sindacali siano ammesse alla contrattazione collettiva) sarà utilizzato un indice, che terrà conto del numero di iscritti, dei voti presi nelle elezioni delle Rsu e di quelli nei comitati di sorveglianza degli enti previdenziali. Nel testo siglato tra Epifani, Bonanni e Angeletti la soglia (che nel pubblico impiego è fissata al 5%) dovrebbe essere lasciata alla decisione delle singole categorie. Anche per l'approvazione degli accordi, sarà preservata l'autonomia delle categorie. Per gli accordi interconfederali il procedimento sarà invece quello seguito con il protocollo sul welfare: le segreterie unitarie sottoporranno l'ipotesi di accordo al voto dei direttivi unitari, i contenuti dell'accordo verranno illustrati ai lavoratori, e nella fase finale sottoposti a «consultazione certificata». Sembra invece finita in nulla la richiesta della Uil di una forma di validazione specifica anche per la proclamazione di scioperi. L'era berlusconiana Cgil, Cisl e Uil puntano ad arrivare al primo incontro con il governo con il testo condiviso. La contrattazione di secondo livello, chiedono, dovrebbe essere incentivata anche mediante sgravi contributivi (a cui si è dato corso con il protocollo sul pensioni e welfare). Berlusconi punta tutto per ora sulla detassazione degli straordinari e delle una tantum. Punta cioè, e non ne fa mistero, al rapporto individuale tra lavoratrice o lavoratore e datore di lavoro. La Cgil si è detta contraria a tali misure, ma il combinato disposto tra la riforma del modello contrattuale e le politiche berlusconiane lasceranno il segno. Sarà così possibile per i padroni aumentari i salari dei dipendenti, senza dovere ricorrere al contratto integrativo (imprenditori alla Della Valle o alla Riello ne saranno felici). E sarà persino possibile (lo ha notato anche Ichino) una nuova forma di evasione fiscale: per sottrarre ogni aumento retributivo all'aliquota Irpef, sarebbe sufficiente farlo passare come straordinario.


"Senza contratto nazionale torniamo alla fine dell'800"

di Fabio Sebastiani

su Liberazione del 04/05/2008

«Altro che moderne relazioni sindacali. Se cade il contratto nazionale di lavoro si torna alla fine dell'800». Osvaldo Squassina, ex segretario bresciano della Fiom, esperto di salari e buste paga, scuote la testa. Questa storia del rinnovo dei modelli contrattuali attraverso un forte riequilibrio a favore dei contratti aziendali non lo convince proprio. E come lui molti sindacalisti che anche da posizioni "di destra" hanno sempre guardato al vincolo di solidarietà tra lavoratori come allo strumento fondamentale per la garanzia dei diritti elementari, primo fra tutti quello a non trovarsi costantemente sotto il ricatto individuale. «Innanzitutto, chi oggi parla di spostare l'accento nei rapporti aziendali - aggiunge Squassina - non si rende conto che il primo e il secondo livello di contrattazione sono due facce di una stessa medaglia. Dal punto di vista del lavoratore, se si depotenzia la prima anche la seconda sarà più debole». Difficile dargli torto, soprattutto se si pensa al fatto, storico, che il contratto nazionale nel "biennio rosso" nasce esattamente come tentativo di fare massa critica, di non farsi più "circondare" dai padroni fabbrica per fabbrica.
Un altro elemento da notare, secondo alcuni esperti di diritto del lavoro, è che la fine del contratto nazionale potrebbe avere tra le sue conseguenze anche effetti anticostituzionali, laddove si parla di parità di salario a parità di lavoro. Se, a partire dal maggior peso del contratto aziendale, infatti, si dovesse arrivare alle "gabbie salariali", il rischio di una corsa al ribasso del costo del lavoro potrebbe portare a fortissime differenze nella busta paga per aree e quindi anche nelle stesse categorie.
Un pericolo ben presente agli stessi imprenditori. E' lo stesso Carlo Dell'Arringa sul "Sole 24 ore" di ieri a vedere nella «rete protettiva dei salari minimi, sotto la quale non è socialmente opportuno scendere» una possibile soluzione a questo problema. A dire la verità i commi costituzionali dell'articolo 36 a rischio sarebbero due, compreso quello della retribuzione sufficiente «ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa a tutti i lavoratori e alle loro famiglie».
«La determinazione del salario minimo - sottolinea ancora Squassina - è una cosa difficilissima che di fatto è in vigore proprio nei paesi dove non c'è un contratto nazionale. Sarebbe una gestione tutta politica della lotta sindacale e della rivendicazione dei lavoratori».
Anche Nicola Nicolosi, leader di Lavoro Società, sottolinea l'estrema difficoltà a dipanare un nodo di questa portata. «A quel punto vuol dire che passeremmo da un modello rivendicativo a uno redistributivo». «Voglio sottolineare però - aggiunge - che nei paesi dove è in vigore il modello redistributivo attribuisce al salario una fetta di ricchezza nazionale di almeno dieci punti maggiore rispetto a quella italiana attualmente ferma al 40%». «La funzione del contratto nazionale - conclude Nicolosi - gioca un ruolo fondamentale nell'assetto democratico del paese e a guardar bene la storia è stato, insieme alla scuola e alla televisione, l'unica esperienza non retorica e celebrativa dell'unità del paese».
Per Danilo Barbi, segretario generale della Cgil dell'Emilia Romagna, il nodo del confronto con gli imprenditori non si può far risalire unicamente all'equilibrio tra primo e secondo livello del contratto. «Il panorama è piuttosto frastagliato - dice - perché ci sono anche quelli che non vogliono il contratto aziendale, come nel commercio, o addirittura, come nell'artigianato, che spingono per quello regionale». «E' indubbio - continua Barbi - che l'equilibrio tra contratto aziendale e contratto nazionale è in discussione, ma la battaglia è per la contrattazione tout court». Per Barbi, comunque, il contratto nazionale è quello che ha «promosso le condizioni di miglioramento sociale e collettivo dei lavoratori». E non solo da un punto di vista economico.
Contro la revisione dei modelli contrattuali, infine, anche il mondo del sindacalismo di base è in movimento. Il 17 a Milano è prevista una grande assemblea di delegati e delegate. Cinque i punti all'ordine del giorno: salari, sicurezza, precarietà, rappresentanza e concertazione. «Il problema del contratto nazionale - sottolinea Paolo Leonardi - è il suo rafforzamento perché così come è non fa altro che dare un po' di salario in cambio della cessione di diritti».



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