martedì 27 maggio 2008

Via Giorgio Almirante, terrorista


Via Giorgio Almirante, terrorista

Gennaro Carotenuto,
Domenica 25 Maggio 2008, 13:13


In molti hanno scritto dell’Almirante antisemita e dell’Almirante massacratore repubblichino e ci vuole un tir di Maalox (o lo stomaco di Veltroni, “nulla fermerà il dialogo con il PDL”) per mandarlo giù.

Ben pochi invece si sono soffermati sul fatto che Giorgio Almirante fu amnistiato solo perché ultrasettantenne dal reato di favoreggiamento aggravato agli autori della strage di Peteano, nella quale tre carabinieri furono fatti saltare in aria.


Giorgio Almirante, il grande statista al quale Gianfranco Fini rende omaggio e Gianni Alemanno vuol dedicare una strada romana, per la legge italiana è però un terrorista complice dell’assassinio di tre carabinieri. Ecco tutta la storia.


Il 31 maggio 1972, in Peteano di Sagrado, in provincia di Gorizia, mentre in televisione trasmettevano Inter-Ajax, morirono dilaniati in un attentato il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Bongiovanni di 33 e 23 anni. Rimasero gravemente feriti il tenente Francesco Speziale e il brigadiere Giuseppe Zazzaro.

Nonostante i morti fossero tre poveri carabinieri (nella foto), immediatamente una cortina di depistaggi fu elevata per coprire i responsabili. Come per Piazza Fontana si diede per anni la colpa ai rossi; la strategia della tensione serviva per quello e funzionava così.

Tra i principali depistatori vi fu il generale Dino Mingarelli, condanna confermata in Cassazione nel 1992 per falso materiale ed ideologico e per soppressione di prove, e il generale piduista Giovanbattista Palumbo, che all’epoca era comandante della divisione Pastrengo di Milano e che aveva competenza su tutto il Norditalia, che inventò la pista rossa di sana
pianta. Per difendere gli assassini di tre carabinieri due dei maggiori in grado dell’arma delle vittime, per anni ne fecero di tutti i colori, manomettendo e facendo sparire le prove, come si legge nelle sentenze e come racconta benissimo il giudice Felice Casson in un libro intervista che
uscirà in futuro.

La strage avvenne a 15 giorni dall’omicidio Calabresi e tre settimane dopo le elezioni politiche del 7 maggio nelle quali l’MSI era cresciuto fino all’8.67%, massimo storico e ad un passo dal PSI. I colpevoli materiali della strage, condannati all’ergastolo con sentenza definitiva, erano gli iscritti all’MSI friulano Carlo Cicuttini e Vincenzo Vinciguerra insieme ad Ivano Boccaccio, ucciso pochi mesi dopo i fatti in uno strano tentativo di dirottamento aereo all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, in ottobre. Con Peteano c’entrano tutti, i vertici dei carabinieri, l’MSI (al quale erano iscritti tutti i terroristi) la P2, Gladio, i servizi italiani e la CIA nel pieno della strategia della tensione. Destabilizzare per stabilizzare.

Per trappolare la 500 di Peteano furono usati materiali di Gladio conservati ad Aurisina e tecniche che venivano insegnate alla Folgore a Pisa. Risoltosi il problema di Boccaccio, restavano Cicuttini e Vinciguerra. Abbiamo già detto che la strategia della tensione serviva a destabilizzare per stabilizzare e proprio l’MSI la stava capitalizzando, come il voto del 7 maggio aveva appena dimostrato. E quindi i camerati andavano salvati. E qui interviene il nostro. Dopo la morte di Boccaccio a Ronchi, Vinciguerra e Cicuttini, segretario dell’MSI a San Giovanni a Natisone, in provincia di Udine, che faceva i comizi con Giorgio Almirante, nonostante non fossero
ancora stati inquisiti per Peteano (le piste fasulle staranno in piedi per anni), si erano comunque resi latitanti. Latitanza dorata nella Spagna di Francisco Franco, dove il loro punto di riferimento era Stefano delle Chiaie e dove con questo si dedicavano al traffico d’armi. Cicuttini sposò perfino
la figlia di un generale. C’era un solo punto debole del piano: la voce di Cicuttini registrata sia nei comizi dell’MSI sia nella telefonata con la quale Cicuttini attira i carabinieri nella trappola a Peteano.

E fu proprio Giorgio Almirante, il fascista in doppio petto, quello
rispettabile, quello con il senso dello Stato, a proteggere l’autore della
strage di Peteano fino a mandargli 34.650 dollari statunitensi in Spagna
proprio per operarsi alle corde vocali. Ciò è processualmente provato.
Almirante consegnò personalmente i soldi all’avvocato goriziano Eno Pascoli che li fece avere a Cicuttini a Madrid, via Svizzera. Almirante e Pascoli,
incriminati per favoreggiamento dell’autore della strage di Peteano furono
rinviati a giudizio insieme. Ma mentre Pascoli sarà condannato, la condanna
di Almirante seguirà un corso diverso. Il capo dell’MSI godeva infatti
dell’immunità parlamentare dietro la quale si trincerò perfino per evitare
di essere interrogato. La tirò avanti per anni di battaglie nelle quali non
fu mai in dubbio la sua colpevolezza, finché non intervenne un’amnistia
praticamente ad personam, della quale beneficiava solo in quanto
ultrasettantenne. Giorgio Almirante, l’uomo d’ordine, dovette chiedere per
sé l’amnistia perché il dibattimento lo avrebbe condannato e ne beneficiò
(mentre il suo complice fu condannato) per il reato di favoreggiamento
aggravato degli autori (militanti e dirigenti del suo partito) di un
attentato terroristico nel quale vennero uccisi tre carabinieri. Non si
parla di violenza politica o di strada, di giovani di destra e sinistra che
si fronteggiavano e a volte si ammazzavano; stiamo parlando del peggiore
stragismo. Dedichiamogli una strada, lo merita: Via Giorgio Almirante,
terrorista.

venerdì 23 maggio 2008

Fosco Giannini su Appello Comunisti Uniti

Non sono d’accordo con il compagno Ferrero
Intervista a Fosco Giannini, direttore de l’ernesto
di Yassir Goretz
E’ uscita oggi (venerdi 16 maggio) su Liberazione un’ampia intervista al compagno Paolo Ferrero, che già nel titolo (“Subito l’opposizione a Berlusconi. La costituente? Spacca la sinistra”) appare “pepata” e provocatoria. Ne parliamo con il compagno Fosco Giannini, membro del Cpn, direttore de l’ernesto.
Molte e pregnanti sono le questioni che Ferrero pone, in vista del Congresso del PRC, nell’intervista su Liberazione. Vuoi provare ad entrare nel merito di tali questioni?
Le questioni poste da Ferrero sono davvero rilevanti. Anticipo subito che oltre ad essere tali, sono anche – dal mio punto di vista – particolarmente disorientanti e (sul piano politico e culturale) equivoche, ed è dunque importante affrontarle e smontarle immediatamente…
Puoi iniziare ad affrontare la prima delle questioni poste da Ferrero: le ragioni della nostra drammatica sconfitta e delle responsabilità della stessa… Cosa pensi del modo con il quale Ferrero “legge” tali questioni?
Lo dico con franchezza: è un modo particolarmente ambiguo e pericoloso, poiché non tende a rivelare la verità, ma tende – strumentalmente – a rafforzare un’idea di parte: quella – appunto – di Ferrero e della sua coalizione congressuale, un’idea volta a proporre una inesistente “terza via” tra la costituente di sinistra rilanciata da Vendola e Giordano (anche dopo la sconfitta) e il rilancio, in Italia, di un partito comunista di lotta e di massa, come noi lo proponiamo. Ma veniamo al merito. Ferrero individua due questioni quali basi materiali della sconfitta: la delusione provocata nel nostro popolo dal governo Prodi e la costruzione sbagliata della Sinistra Arcobaleno, sbagliata poiché condotta (parole di Ferrero) «attraverso un’operazione politica di vertice». Cosa vuol dire? Che se non fosse stata di vertice sarebbe andata bene? In verità è ciò a cui crede Ferrero, quando, riproponendo “la federazione delle sinistre” (con gli stessi soggetti dell’Arcobaleno…) rivela che la sua differenza dalla proposta congressuale Giordano –Vendola non è così grande e che, anzi, se non è zuppa è pan bagnato… Ora, Ferrero ha il buon gusto di affermare che lui stesso è da ritenersi uno dei maggiori responsabili della sconfitta, ed è vero: Ferrero è uno dei massimi responsabili della nostra disfatta, poiché ha appoggiato pienamente la linea del Congresso di Venezia, dove è stata ratificata la linea di tale disfatta, e ha appoggiato sino alla fine il governo Prodi, anche nel momento in cui si doveva invece rompere sul Protocollo del 23 luglio (welfare , pensioni, ratifica della Legge 30). Posso ricordare che i compagni de l’ernesto (chi parla al Senato e il compagno Pegolo alla Camera) avevano –al contrario di Ferrero – chiesto al Partito di non votare il Protocollo ed uscire dal governo, per non essere complici di una politica antipopolare che ci avrebbe (come è stato) fatto pagare prezzi salatissimi sia dal punto di vista dei rapporti di massa che dal punto di vista elettorale? Posso ricordalo?
Ma la questione oggi è: Ferrero ammette le sue gravi responsabilità, ma è come se volesse cancellarle per il solo fatto di averle ammesse. Non è così. Le responsabilità rimangono. E soprattutto vi è un punto su cui riflettere: Ferrero assume sì le sue gravi responsabilità (da costruttore – e non da comprimario - del Congresso di Venezia e da ministro complice delle politiche ultragoverniste ), ma non avanza autocritiche serie in relazioni alle cause strutturali della sconfitta. Quando, ad esempio, parla dell’Arcobaleno come un’operazione politica di vertice, non dice chiaramente che l’errore è stata la scelta in sè dell’Arcobaleno, ma dice che l’Arcobalerno si poteva fare meglio, attraverso più partecipazione e più relazioni sociali. Queste due osservazioni sono scontate, ma sono fuorvianti, poiché la questione vera, tutta materiale, è che attraverso l’Arcobaleno (o la confusa Federazione di sinistra che continua a proporre Ferrero) muore l’autonomia del partito comunista, e senza un partito comunista autonomo, forte, radicato e di lotta si spegne la più forte spinta anticapitalista e antimperialista; il quadro della trasformazione sociale si restringe all’interno di un orizzonte socialdemocratico (unità attorno a Mussi) e si indebolisce fortemente lo stesso obiettivo dell’unità delle sinistre. Peraltro, Ferrero, non avanza autocritiche nemmeno su di un punto cruciale che ha caratterizzato il Congresso di Venezia e che lo stesso Ferrero assunse completamente: la mitizzazione dei movimenti quali soggetti che avrebbero comunque sopperito al deficit di trasformazione sociale dell’Unione e che avrebbero accettato una sorta di divisione del lavoro col PRC, e, cioè, Rifondazione dentro il governo a mediare e i movimenti fuori a spingere a sinistra. Da dove viene questa mitizzazione dei movimenti, della spontaneità sociale? Da una sottovalutazione del ruolo del partito comunista che Ferrero ha condiviso strutturalmente con Bertinotti e che ancora – nell’essenza- fa propria quando, di nuovo, propone il superamento dell’autonomia comunista in una Federazione di sinistra su basi sociali.
Veniamo, allora, alla proposta strategica che avanza Ferrero, nell’intervista, relativamente al nuovo PRC. Che cosa dovrebbe essere per Ferrero?
Mi pare che la proposta di Ferrero sia – lasciami dire così - contemporaneamente chiara e confusa. E’ chiara quando dice: «Io penso ad una rete di relazioni stabili, tra soggetti organizzati e singoli…ecc..». E qui si riferisce chiaramente al superamento dell’autonomia comunista attraverso la riproposizione di una sorta di Izquierda Unida italiana (e ricordiamo quanto quel modello, in Spagna, ma anche in Grecia e in Finlandia, sia miseramente fallito e che prezzo abbiano pagato i partiti comunisti - in termini di autoliquidazione - all’interno di quelle esperienze) nella quale trascinare il PRC. Ma la proposta di Ferrero si fa, contemporaneamente, confusa, quando parla di rilancio del PRC. Ma questa confusione, è bene dirlo, è voluta e nel contempo classica: si lancia l’Izquierda Unida e, insieme, l’autonomia del PRC. Così si annebbia tutto, si disorientano i compagni e le compagne, come sono stati disorientati (e in ultima analisi “fregati”), un tempo, da Occhetto e poi da Bertinotti, che ora, attraverso Vendola e Migliore, ha almeno il pregio di dire le cose come stanno: fare una costituente di sinistra al posto del PRC. Anche Ferrero vuol fare la stessa costituente di sinistra (l’Izquierda) ma non lo dice chiaramente. L’ambiguità (che va smascherata) è il destino storico delle “terze posizioni”, e nel contempo è la loro pericolosità. Resta il fatto che se si vuole davvero rilanciare, nel nostro Paese, un partito comunista all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe, questo partito deve innanzitutto partire da una propria, profonda, autonomia: politica culturale, organizzativa, persino economica e che le inevitabili svendite di sovranità che comporta un’Izquierda minano alla fonte tale autonomia e lo stesso partito comunista. Vorrei rimarcare il fatto che l’autonomia (dai padroni e dalle forze di sinistra moderate), per un partito comunista, è stata sempre una necessità prioritaria. Ma credo che oggi lo sia più che mai, nella fase successiva alla sconfitta del movimento comunista e rivoluzionario e di fronte all’esigenza di rimettere a fuoco ( rifondare) un pensiero ed una prassi adeguate alla nuova fase.
Nella citata intervista a Ferrero vi è una domanda sul comunismo e Ferrero cita “i baffi di Stalin” e - alludendo a Vendola - il comunismo ridotto ad una “domanda”. Che ne pensi di questa riflessione di Ferrero?
E’ una riflessione di basso livello e di cattivo gusto: capisco l’allusione a Vendola, a proposito del comunismo ridotto ad una “domanda”, ma non capisco a chi alluda, quando parla di qualcuno che vorrebbe imbalsamarlo nei baffoni di Stalin. Forse Ferrero frequenta qualche vecchio stalinista a noi sconosciuto. Se invece allude (e credo che faccia questo) a chi di nuovo lotta per l’autonomia del partito comunista e per l’unità dei comunisti, credo allora che Ferrero scivoli su di una buccia di banana falsa e volgare, in quanto non c’è relazione alcuna tra la riproposizione di un partito comunista autonomo, l’unità dei comunisti ed i baffi di Stalin. Piuttosto, noto che Ferrero utilizza il più vecchio dei metodi, per liquidare l’autonomia comunista: quella volta alla comparazione tra comunismo e stalinismo, cosa che hanno sempre fatto i socialdemocratici, i padroni e che da anni fa anche Berlusconi. Ma quale stalinismo! Impegniamoci, piuttosto, a ricostruire, nella lotta sociale e nella ricerca politico-teorica aperta e non dogmatica, un partito comunista legato al movimento operaio complessivo, capace di interpretare le grandi contraddizioni sociali e dare risposte ai nuovi problemi posti dalla fase che viviamo: immigrazione, unità in senso anticapitalista dei lavoratori bianchi e neri, proletariato metropolitano, unità dei lavoratori “garantiti” e lavoratori precari. Siamo seri, per favore e lasciamo i baffi di Stalin alle inquietudini dei vecchi socialdemocratici .
Tuttavia, Ferrero indica cos’ è , per lui, il comunismo: il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Scusami, ma , sinceramente, mi viene un po’ da ridere. Questa frase la ritrova ormai ovunque e quando non si sa cosa dire la si cita. Chi fa così la riduce a frase da cioccolatini perugina. Marx l’aveva coniata per indicare il fluire dialettico della storia e del processo rivoluzionario e lo faceva per evitare ogni schematismo nella lettura degli eventi. Tuttavia nè Marx, né Lenin, né Gramsci, né ogni altro grande rivoluzionario dell’800 e del ‘900 hanno racchiuso tutto l’orizzonte comunista entro questo quadro neoeracliteo, poiché se così fosse stato (o fosse) il progetto comunista sarebbe ben poca cosa, anzi sarebbe un nulla. Se il progetto comunista fosse solo ciò che indica Ferrero (restringendo Marx e l’intera storia comunista e rivoluzionaria al “movimento reale ecc…” il comunismo sarebbe privato di ogni progetto (che fine farebbe la ricerca della forma concreta del superamento dei rapporti di produzione capitalistici e dell’imperialismo internazionale? Del potere e della democrazia socialista?). In verità, enucleare quella concezione che cita
Ferrero dal contesto generale del progetto (e dell’esperienza concreta del comunismo) significa prendere una scorciatoia intellettualmente opportunista volta a non dire nulla per non impegnarsi e non sbagliare. In questo modo, però, si finisce solo per non dire assolutamente nulla, e quest’afasia politica e teorica è l’altra faccia della rinuncia a riproporre con forza e chiarezza l’esigenza (storica e sociale) del partito comunista.
Ferrero afferma anche che il progetto di costituente comunista sarebbe gemello al progetto di costituente socialista, poiché entrambi minerebbe il progetto di rifondazione comunista.
E’ sconcertante. Proviamo piuttosto a ragionare. Lo scorso 17 aprile il Manifesto, Liberazione e la grande stampa nazionale pubblicano un Appello di cento grandi personalità del mondo operaio e intellettuale. Esso indica tra le cause della nostra drammatica sconfitta la delusione provocata dal governo Prodi e il fatto che, attraverso la proposta dell’Arcobaleno, siano stati sottratti, al nostro elettorato, gli storici punti di riferimento comunisti e di sinistra. A fronte del disastro i cento dell’Appello avanzano una proposta: che il Prc e il Pdci tornino ad unirsi in un solo partito comunista, un partito di lotta che si proponga come cuore dell’opposizione a Berlusconi e motore di una nuova unità a sinistra, rispettosa delle varie autonomie (comunisti e forze di sinistra) e ben lontana dalla fallimentare e (letteralmente) immotivata precipitazione organizzativistica dell’Arcobaleno. A tale proposta l’intero gruppo dirigente del Prc (da Giordano a Ferrero) risponde – stizzito - di no. Il gruppo dirigente del Pdci risponde di si, chiarendo che il proprio partito è disponibile ad un processo di riunificazione, per tornare alle origini della rifondazione comunista e offrire un punto di riferimento alla vasta diaspora comunista italiana. Chi scrive è d’accordo con le tesi dell’Appello e rimarca il fatto che il no di Giordano e Ferrero sia stato assunto da diversi interlocutori (non certo dai comunisti “di base”) come scontato e non sia stato per nulla indagato. In verità il no alla proposta di riunificare i due partiti comunisti italiani non è stato adeguatamente motivato e l’unico barlume argomentativo – che ha unito Giordano e Ferrero - è stato quello (molto vago) secondo il quale il Prc avrebbe da tempo assunto un’ “innovazione” alla quale il Pdci sarebbe estraneo. Prendiamo le questioni di petto: un processo di riunificazione dei due partiti comunisti darebbe, se ben condotto, una nuova passione al popolo comunista, oggi disorientato e spinto all’autoliquidazione. Rispetto ad un obiettivo così alto dovremmo davvero ritenere un impedimento le innovazioni del Prc? Occorre, da questo punto di vista, soffermarsi su tali innovazioni. Sarebbe un’innovazione impedente la cancellazione formale, dal corredo teorico del Prc, della categoria di imperialismo? Crediamo di no, per il semplice motivo che essa è stata smentita dai fatti, nel senso che l’imperialismo è oggi più vivo che mai e che anche i dirigenti del Prc - di fronte alla durezza delle guerre imperialiste – tendono a rimuovere la loro precedente tesi. Sarebbe un’innovazione impedente la fragile teorizzazione bertinottiana secondo la quale il ruolo di intellettuale collettivo non dovrebbe essere più assegnato al partito comunista, alla sinistra, ma direttamente allo spontaneismo sociale? Non crediamo: è stato lo stesso Alfonso Gianni, testa pensante del bertinottismo, ad affermare, dopo la sconfitta elettorale e il voto operaio passato alla Lega, che il senso delle masse si è perso e che è ormai tempo che siano i comunisti e la sinistra a ricostruire un senso politico e di massa. Sarebbe un’innovazione impedente l’ormai ingiallita teorizzazione bertinottiana secondo la quale la rottura da parte del Prc con il primo governo Prodi doveva essere una rottura “fondante” della stessa rifondazione comunista? Il nefasto governismo dell’ultimo Prc ha smentito clamorosamente tale teorizzazione e ha posto il problema, per tutti i comunisti, di uscire dal rischio del cretinismo parlamentare e tornare alla testa delle lotte. Sarebbe un’innovazione impedente l’assunzione da parte del Prc della categoria della non violenza? Lo sarebbe se essa si trasformasse in una rinuncia al conflitto e alla trasformazione sociale. Poiché nessuno, nel Prc, interpreta la non violenza in questo senso, la questione appare di lana caprina, poiché non vi è un comunista, nei due partiti italiani, che pensa alla lotta armata e alla presa, lunedì prossimo, del Palazzo d’Inverno. Sarebbe un’innovazione impedente l’affermazione (Bertinotti-Gianni) di qualche tempo fa, secondo la quale «i grandi pensatori e i rivoluzionari del ’900 sarebbero tutti morti e non solo fisicamente» ? Non crediamo, poiché la sua estemporaneità non le ha permesso di ucciderli davvero, anche nel senso comune dei dirigenti e della base Prc.
Qual è il punto vero, dunque, rispetto alla proposta avanzata dai cento dell’Appello, assunta dal gruppo dirigente del Pdci e volta al rilancio - attraverso la riunificazione e la rimessa in campo di una forza di opposizione sociale - di un partito comunista, dai caratteri di massa, in Italia?
Ci sembra chiaro: il punto vero è se si vuole o no ricostruire il partito comunista. Se non si vuol farlo lo si dica chiaramente, senza cercare astruse motivazioni. A noi sembra che il rilancio di una forza comunista, anticapitalista, non sia una questione ideologica ma un’esigenza sociale (la guerra segna il nostro tempo e il trasferimento di quote di salario verso il profitto è il più imponente da 50 anni a questa parte). L’esigenza dell’unità dei comunisti trova oggi, per realizzarsi, un terreno favorevole. Chi si sottrae a tale compito vuol dire che pensa a costruire qualcosa d’altro, a rianimare il cadavere dell’Arcobaleno. E se ne assumerà la responsabilità.
Dunque, non sei proprio d’accordo su nulla, con Ferrero?
No, su un punto sono d’accordo: che occorre ripartire dall’opposizione a Berlusconi. Ma ciò lo si può fare a partire dal rilancio di un partito comunista forte, che nel conflitto esprima anche un progetto di trasformazione in senso socialista e sia il cuore unitario della sinistra d’alternativa.

martedì 20 maggio 2008

famiglia cristiana contro la 194

Famiglia Cristiana: "In Parlamento ci sono i numeri per cambiare la 194"
Parlamento

"È ora di sgretolare il mito della legge 194". Titola così un editoriale che verrà pubblicato sul prossima numero di Famiglia Cristiana.

Il settimanale dei Paolini sottolinea che la 194 "ha sicuramente contribuito, lo dicono i numeri, all'inverno demografico", ma è una legge che "non si riesce a rivedere", è "un tabù intoccabile, in un paese dove si cambia perfino la Costituzione", una norma che "intendeva far 'emergere' l'aborto" ma che, in pratica, "l'ha legalizzato".

"I politici più avveduti, già allora, si posero il problema. Giovanni Berlinguer, senatore del Pci, disse: 'Dopo un congruo periodo di applicazione, dovremmo riesaminare le esperienze pratiche, le acquisizioni scientifiche e giuridiche e assicurare da parte di tutti i gruppi parlamentari l'impegno a introdurre nella legge le modifiche necessarie'. Esattamente quello che non è stato mai fatto".

"Oggi - si legge nell'editoriale - non è più sufficiente proporre una migliore applicazione senza toccare nulla dal punto di vista legislativo. Tutti ormai, se si escludono frange femministe fuori dalla storia, Pannella e la solita rumorosa pattuglia radicale (sempre più esigua), hanno abbandonato la vecchia formula che l'aborto è 'questione di coscienza', affare privato che non attiene alla sfera del bene comune. L'aborto è un fatto di rilevanza pubblica e politica. Oggi in Parlamento ci sono i numeri per sgretolare il 'mito della 194'. Si tratta di una maggioranza trasversale che, in primo luogo, fa appello ai politici cattolici".

lunedì 19 maggio 2008

Rinaldini e la posizione della FIOM sulla riforma del contratto

l no della Fiom a Epifani Rinaldini: «Diritto al dissenso»

di Loris Campetti

su Il Manifesto del 17/05/2008

Il 76% dei delegati Fiom approva la mozione di Rinaldini: nessuna unità senza democrazia. Lunedì, confronto tra le segreterie Fiom e Cgil

«E' dal tempo della prima tessera del Pci, avevo 15 anni, che ascolto appelli al senso di responsabilità», dice il segretario generale Fiom Gianni Rinaldini, «anche su scelte che poi tutti avrebbero definito sbagliate». Ma questa volta l'appello non è recepibile perché alla definizione della piattaforma unitaria sulla riforma dei contratti non si è arrivati attraverso un percorso democratico. Così come «nel '66 Pietro Ingrao rivendicò il diritto al dubbio, io oggi rivendico il diritto al dissenso». Anche il centralismo democratico ha le sue regole. La conclusione della conferenza d'organizzazione della Fiom ha formalizzato quel che era risultato già evidente durante l'intervento del segretario generale della Cgil: Guglielmo Epifani non ha convinto i suoi metalmeccanici. Nel metodo, perché la piattaforma unitaria non ha avuto momenti di validazione democratica, con l'esclusione di un comitato direttivo nazionale della Cgil. Né i gruppi dirigenti delle categorie, né i delegati si sono potuti esprimere, figuriamoci i lavoratori a cui verrà presentato al termine del percorso il testo di un accordo da prendere o lasciare. Nel merito, la Fiom non condivide l'idea di sindacato che sta dietro la piattaforma e, verosimilmente, il futuro accordo con Confindustria e governo. Un sindacato più legittimato dal rapporto con l'antagonista e la politica che non dal rapporto democratico con i lavoratori. Lo svuotamento del contratto nazionale, ridotto al mero recupero dell'inflazione, e il vincolo che lega gli aumenti nei contratti di secondo livello alla produttività e redditività d'impresa, sono intesi dalla grande maggioranza della Fiom come un arretramento, persino rispetto agli accordi del luglio '93 che pure tutti ritengono superati e responsabili della perdita di potere d'acquisto dei salari.
Ciò vuol dire che la strada della Fiom si separa da quella della Cgil? Ovviamente no, e «quando ci sarà da difendersi e da difendere i lavoratori dagli assalti di Confindustria e del governo, i metalmeccanici saranno in campo con la lotta». Lunedì mattina le due segreterie si incontreranno e i reciproci percorsi da qui all'eventuale accordo sui contratti (e al congresso della Cgil) saranno più chiari a tutti. L'ultima giornata di lavori della conferenza d'organizzazione della Fiom ha registrato la compattezza della categoria intorno al suo gruppo dirigente. E il voto sulle mozioni finali ha ribadito i rapporti di forza interna: 70 voti alla minoranza (17%), 31 astenuti (17%) e 312 (76%) sì alla maggioranza di Rinaldini. Fausto Durante che si rifà alle posizioni di Epifani ha registrato addirittura una lieve riduzione di consensi rispetto al numero di delegati su cui poteva contare.
In mattinata Giorgio Cremaschi aveva sostenuto con convinzione la relazione del segretario (come ha fatto anche l'area Lavoro e società della Fiom): «I dissensi fanno bene all'organizzazione», e potrebbero rappresentare uno strumento in più per Epifani contro le aggressioni padronali e governative. Cremaschi ha richiamato, come molti altri intervenuti, il pericoloso impasto determinato dalla sconfitta politica e dalla regressione sociale che hanno effetti devastanti, a partire dalla caccia ai diversi, ai rom, ai più deboli (l'assemblea di Cervia ha votato quasi all'unanimità una mozione che richiama alla solidarietà). E alla Cgil ha detto: «Senza la Fiom non andate da nessuna parte». Tra gli interventi più applauditi quello di Maurizio Landini della segreteria Fiom: i padroni «vogliono cancellare la contrattazione collettiva» per passare all'elargizione unilaterale di salario. E sulla piattaforma unitaria, Landini si è espresso da sindacalista: «Io so che in una trattativa, per riuscire a far passare i miei obiettivi devo almeno proporli», mentre le confederazioni si presentano all'incontro con le controparti senza neanche provare a difendere la possibilità di aumentare i salari con i contratti nazionali e di slegare quote importante di aumenti nei contratti aziendali dall'andamento degli utili d'impresa.
La Fiom ha avanzato una proposta, ha ribadito Rinaldini nelle conclusioni: avviare un'analisi attenta dei cambiamenti, della realtà nella quale ci troviamo a operare. Un'operazione simile a quella voluta dopo la sconfitta del '55 da Giuseppe Di Vittorio. Solo così è possibile costruire il sindacato del futuro, sapendo che in Italia è in crisi come in tutt'Europa. Lo scenario globale e gli effetti devastanti della globalizzazione neoliberista sono ancora al centro dell'analisi di Rinaldini. Gli effetti si leggono nello smottamento culturale della società italiana, dove i lavoratori sono messi gli uni contro gli altri, i più forti contro i più deboli, i migranti, i precari. Serve una svolta, una rottura con il recente passato, la riconquista di un'autonomia che negli anni del governo Prodi si è affievolita, in quei due anni, cioè, in cui si sono aperte troppe porte all'arrembaggio che oggi annunciano le destre e la Confindustria, sugli straordinari come sulla defiscalizzazione degli aumenti strappati nei contratti di secondo livello. Dire che alla Fiom non interessa la contrattazione articolata, hanno detto tutti gli intervenuti, è una sciocchezza smentita dalla pratica quotidiana dei metalmeccanici. Il tentativo, pacato, di Fammoni di interpretare la piattaforma unitaria come uno strumento utile per difendere la solidarietà generale ha convinto una risicata minoranza dei delegati, mentre lo stesso segretario confederale ha ammesso che sul terreno della democrazia la strada percorsa non è stata delle migliori.
Lunedì, dunque, un primo confronto tra le segreterie della Cgil e della Fiom. Qualcosa si è rotto, o meglio, un rapporto che da tempo segnalava forti difficoltà e differenze ha mostrato a Cervia tutte le sue crepe. Al centro del confronto ci sarà la democrazia (interna e nel rapporto con i lavoratori) e i contenuti di quella che si può cominciare a chiamare la svolta strategica della Cgil. Una svolta, dicono molti delegati al termine della conferenza, che potrebbe rendere il sindacato di Epifani sempre più simile a quello di Bonanni.

mercoledì 14 maggio 2008

Il manifesto di Nichi Vendola

SINISTRA: NICHI VENDOLA, IL NOSTRO SBAGLIO TROPPO ODIO =
COSI' ERANO I COMUNISTI ORA SMETTIAMOLA, SONO CATTOLICO E GAY
SENZA SENSI DI COLPA

Roma, 14 mag. (Adnkronos)- "Vengo da una cultura politica che ha
molto odiato. E non voglio piu' odiare". Nichi Vendola, governatore
delle Puglie, l'uomo che si e' candidato alla successione di Fausto
Bertinotti alla guida di Rifondazione, traccia cosi', in una lunga
intervista a "La Stampa", la sua idea e la sua filosofia di una
sinistra diversa. E riguardo il suo impegno nel salvataggio di
Rifondazione, afferma: "Non e' la prima volta che mi trovo ad
incarnare il ruolo di chi partecipa a sfide impossibili. Dal punto di
vista del rischio non sono turbato".

"Credo sia giusto adattarsi ad una condizione completamente
nuova come quella di un partito schiantato e mettere a disposizione la
mia immagine la cui popolarita' e' molto oltre il recinto di
Rifondazione per tentare un operazione che dica: la salvezza del mio
partito non e' un'operazione di restauro ma e' la capacita' di
riaprire il cantiere dell'innovazione politico culturale", dice
Vendola che si definisce "un cattolico ed un gay senza sensi di
colpa". Quindi sul risultato elettorale taglia corto: "Difficile
immaginare che potesse andare peggio".

"I nostri problemi -afferma Vendola- vanno affrontati di petto,
senza cercare capri espiatori. Se c'era la falce e martello? se non
c'era Veltroni? argomenti da talk show". "Non c'e' stato -ricorda- un
commento dell'Arcobaleno alla sconfitta. Ognuno in ordine sparso ha
commentato e si e' tirato indietro. Prova che l'Arcobaleno non c'era,
era un'illusione ottica, una cosa posticcia e artificiosa. Agli
elettori siamo apparsi un residuo, un cimelio, un cumulo di velleita'
e di inefficacia". (segue)
E Vendola, definito immagine vincente di
Rifondazione, commenta: "Sono stato il simbolo di una somma di
minoranze che non si sono poste in termini minoritari. Comunista, gay,
cattolico dell'estrema sinistra? tutti filoni eterodossi. La sfida e'
stata identificare un nuovo popolo. Si vince e si perde solo ed
esclusivamente sul piano dell'ideologia". E se si avanza l'ipotesi che
le ideologie non hanno piu' spazio, il governatore delle Puglie taglia
corto: "E' incredibile quello che scrivono i soloni?i Galli della
Loggia, i Panebianco?".

"E il berlusconismo che cos'e'? La favola bella che cuce
l'Italia delle mille corporazioni non e' una straordinaria operazione
ideologica? Berlusconi a quest'Italia cosi' spaventata, regredita,
ferita offre sogni e paure. I sogni dell'Isola dei Famosi e le paure
dell'immigrato. Un mix straordinario" afferma, riconoscendo che la
sinistra ha offerto in contrapposizione "Un discorso debole,
ridondante, incapace di capovolgere l'ideologia berlusconiana".

Contrapporre a Berlusconi un Veltroni leader nei prosimi anni
della sinistra solleva scetticismo in Vendola: "Veltroni ha scelto un
cammino che lo allontana dalla sinistra. Espellere la centralita'
della questione del lavoro dalla propria cultura politica significa
recidere le radici sociali dell'essere di sinistra". Per Vendola il
progetto Veltroni "e' stato scardinato completamente. L'unico elemento
di vittoria e' la scomparsa della sinistra. Il vento di destra lo ha
travolto", ma riguardo la leadership del leader del Pd e' convinto che
non ci sia alcun rispetto all'esito elettorale. "Siamo all'inizio di
un percorso dagli esiti insondabili" dice. (segue)
(Adnkronos)- "La bussola di Veltroni -dice Vendola- e' un mix di
radicalismo etico e moderatismo politico. C'e' l'Africa ma non c'e' la
precarizzazione del mercato del lavoro. C'e' la sete del mondo ma non
c'e' la privatizzazione dell'acqua in Italia". E la presunta stagione
di Cofferati leader della sinistra, per il governatore "Si tratto' di
una abbaglio e di un'illusione ottica. Ho letto i discorsi di
Cofferati e ne ho tratto un'impressione di superficialita' e
schematismo. Sotto il vestito niente". "Cofferati -sottolinea- e'
quello dei lavavetri. Ha anticipato, per molti versi, la conversione
neomoderata del Pd e la sussunzione di pezzi interi della cultura
tipica della destra".

Per Vendola, essere comunisti oggi "Vuol dire porsi molte
domande, sapere che la qualita' della vita e' sempre legata alla
condizione del lavoro, allo sfruttamento. Evitare qualunque feticcio
politico. Una visione feticistica della politica e' quanto di meno
comunista ci possa essere. Mummie, naftalina, asfissia, gulag".
"Esistono -aggiunge- molti piu' proletari che nel passato, in forme
nuove". E chiamato al gioco della torre, butti giu' Rizzo o Diliberto,
non ha dubbi: "Non c'e' bisogno che dica io delle cose orrende di
Rizzo, basta lui. Parla da solo. E' impresentabile". Mentre "Bondi e'
simpaticissimo" e "fa tenerezza. Cicchitto e' fastidioso" e la Binetti
" e' sempre meno un corpo estraneo all'interno del Pd".

Quindi ricorda la sua rubrica 'Il dito nell'occhio' su
'Liberazione, dicendo: "La leggevano tutti... Ho meritato alcuni
attacchi di Giampaolo Pansa. Fu abbastanza sgradevole. Ma non voglio
entrare in polemica di nuovo con Pansa. Perche' e' livoroso, e'
cattivo. Ha perso la trebisonda. Insulta. Dopo essere stato piu' o
meno interno al Pci, e' diventato anticomunista. Ma ha trattenuto una
specie di virus stalinista, uno stalinismo della semplificazione,
della politica spettacolo". "Vengo da una cultura politica che ha
molto odiato. E non voglio piu' odiare" aggiunge. (segue)
Vendola, infine, parla di se stesso, del suo essere
cattolico e gay. "Mio padre ci rimboccava le coperte fino a 18 anni
chiedendoci 'Avete fatto le preghiere?'" ricorda e, parlando di Papa
Benedetto XVI afferma: "Non posso dire di essere incoraggiato da
questo inizio di pontificato. Quello che mi delude soprattutto e'
l'eccesso di dimestichezza della Chiesa con i poteri temporali. E il
suo bisogno di avere successo. Di misurare i rapporti di forza nelle
piazze. Io amo molto un'idea catacombale della Chiesa".

Il suo coming out, ricorda ancora avvenne "nel sessantotto, a
vent'anni. A Terlizzi che non era Roma. Fu un massacro sociale,
politico, familiare" ma niente di diverso a quanto ha riferito lo
stesso Grillini nella sua Romagna. Anzi, Vendola sottolinea che "il
Sud da questo punto di vista e' sempre stato piu' avanzato" Mentre per
metteere in equilibrio la formula gay e cattolico, dice che "basta
bonificare la propria spiritualita' dai sensi di colpa".

Sulle posizioni rispetto all'omosessualita' assunte da
Buttiglione e da Tremaglia, Vendola ritiene che sianno "due sfumature
della stessa paura. L'omofobia puo' essere esercitata con la grevita'
del linguaggio da caserma di Tremaglia o con le sepolcrali ipocrisie
di Buttiglione". Infine sui magistrati Forleo e De Magistris taglia
corto ancora: "Non mi piacciono i magistrati da talk show, e'
giustizia di piazza".

martedì 6 maggio 2008

Sulla riforma del contratto

Due articoli per capire un po' di più.

Lavorare di più, contrattare in azienda

di Sara Farolfi
su Il Manifesto del 01/05/2008

È pronto il testo sulla riforma del modello contrattuale. Segreterie unitarie di Cgil, Cisl e Uil la prossima settimana. Il contratto nazionale viene ridotto al «minimo», e gli aumenti salariali saranno da contrattare in azienda. Mentre Berlusconi prepara la detassazione secca degli straordinari
I sindacati accelerano sulla riforma del modello contrattuale. I tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil hanno definito e completato il testo comune che sarà alla base della discussione con Confindustria, oggi dovrebbero annunciarlo e già per l'inizio della settimana prossima sono previste le segreterie unitarie delle tre confederazioni. Guglielmo Epifani, alle prese con il dissenso interno della categoria dei metalmeccanici e delle aree programmatiche Lavoro e società e Rete 28 Aprile, ha scelto la strada dell'accelerazione. Su una materia, la contrattazione, che costituisce l'essenza stessa del sindacato. Il cambiamento è poderoso e deciderà delle politiche salariali (e non solo) per almeno il prossimo decennio. Con gli accordi del luglio 1993, le politiche contrattuali furono informate al principio della stabilità monetaria e al contenimento dell'inflazione. Allora l'obiettivo era l'ingresso in Europa, il pegno da pagare (dai soliti noti, naturalmente) fu quella moderazione salariale che ha portato i salari italiani ai livelli più bassi di tutta Europa. Oggi l'obiettivo è, accanto al miglioramento delle condizioni di reddito, «la competitività e produttività del nostro sistema imprenditoriale». Al contratto nazionale resta la difesa del potere d'acquisto, gli aumenti salariali saranno da contrattare in azienda (legati ai parametri della produttività, qualità, redditività, efficienza e efficacia). Ma la contrattazione di secondo livello, come hanno mostrato diverse ricerche (ultima quella del Censis), interessa una fetta piccola del sistema imprenditoriale. Di contrattazione territoriale - a cui oggi si richiamano i sindacati con le parole, Rsu in tutti i posti di lavoro - si parlava già nel '93 e, salvo pochi settori, del tutto inutilmente (del resto Emma Marcegaglia ha già parlato chiaro: per noi non esiste). Nella gran parte delle imprese italiane, che sono sotto i 10 dipendenti, non c'è neppure il sindacato. A questo si aggiunga l'offensiva berlusconiana che porterà sul tavolo del primo consiglio dei ministri la detassazione secca degli straordinari e di tutte le voci del salario variabile (premi e incentivi). Ossia l'allungamento di fatto dell'orario di lavoro ( per guadagnare di più bisogna lavorare di più ), che nelle intenzioni del nuovo governo non avrà alcun riferimento alla contrattazione aziendale. Puntando in questo modo al pieno dispiegarsi del rapporto individuale tra azienda e lavoratore. Il nuovo modello contrattuale I contratti (pubblici e privati), oggi divisi in un quadriennio normativo e due bienni economici, saranno triennalizzati. La difesa del potere d'acquisto viene ancorata al concetto di «inflazione realisticamente prevedibile». Nel '93 si chiamava «inflazione programmata», e il risultato (complice anche il costante ritardo nei rinnovi dei contratti nazionali) è sotto gli occhi di tutti. Per misurare l'inflazione, i sindacati pensano all'indice europeo (a cui andrebbe aggiunta la spesa per i mutui), oppure al deflattore nazionale dei consumi interni: la cosa sarà comunque oggetto della trattativa con le imprese (che non sembrano per la verità molto disponibili). Viene corretto anche quel passaggio del testo - da molti letto come un'apertura alla possibilità di deroghe - in cui si dice che «i contratti nazionali dovranno prevedere, in termini di alterità, la sede aziendale o territoriale». Gli aumenti salariali saranno relegati alla contrattazione di secondo livello - aziendale e territoriale (regionale, di filiera, comparto, distretto e sito). Per tutti i lavoratori scoperti, verrà definita a livello nazionale una sorta di «indennità di perequazione», come nell'ultimo contratto dei metalmeccanici. Decisive, vengono considerate in casa Cgil, le linee guida su democrazia e rappresentanza. I sindacati puntano sulla certificazione, e dunque sulla certezza, della rappresentanza. Il luogo deputato sarà il Cnel e la certificazione delle iscrizioni sarà fatta mediante l'Inps. Il modello somiglia a quello del pubblico impiego, anche se l'accordo sarà per via pattizia (tra le parti) e non per via legislativa. Per misurare la rappresentatività (quali organizzazioni sindacali siano ammesse alla contrattazione collettiva) sarà utilizzato un indice, che terrà conto del numero di iscritti, dei voti presi nelle elezioni delle Rsu e di quelli nei comitati di sorveglianza degli enti previdenziali. Nel testo siglato tra Epifani, Bonanni e Angeletti la soglia (che nel pubblico impiego è fissata al 5%) dovrebbe essere lasciata alla decisione delle singole categorie. Anche per l'approvazione degli accordi, sarà preservata l'autonomia delle categorie. Per gli accordi interconfederali il procedimento sarà invece quello seguito con il protocollo sul welfare: le segreterie unitarie sottoporranno l'ipotesi di accordo al voto dei direttivi unitari, i contenuti dell'accordo verranno illustrati ai lavoratori, e nella fase finale sottoposti a «consultazione certificata». Sembra invece finita in nulla la richiesta della Uil di una forma di validazione specifica anche per la proclamazione di scioperi. L'era berlusconiana Cgil, Cisl e Uil puntano ad arrivare al primo incontro con il governo con il testo condiviso. La contrattazione di secondo livello, chiedono, dovrebbe essere incentivata anche mediante sgravi contributivi (a cui si è dato corso con il protocollo sul pensioni e welfare). Berlusconi punta tutto per ora sulla detassazione degli straordinari e delle una tantum. Punta cioè, e non ne fa mistero, al rapporto individuale tra lavoratrice o lavoratore e datore di lavoro. La Cgil si è detta contraria a tali misure, ma il combinato disposto tra la riforma del modello contrattuale e le politiche berlusconiane lasceranno il segno. Sarà così possibile per i padroni aumentari i salari dei dipendenti, senza dovere ricorrere al contratto integrativo (imprenditori alla Della Valle o alla Riello ne saranno felici). E sarà persino possibile (lo ha notato anche Ichino) una nuova forma di evasione fiscale: per sottrarre ogni aumento retributivo all'aliquota Irpef, sarebbe sufficiente farlo passare come straordinario.


"Senza contratto nazionale torniamo alla fine dell'800"

di Fabio Sebastiani

su Liberazione del 04/05/2008

«Altro che moderne relazioni sindacali. Se cade il contratto nazionale di lavoro si torna alla fine dell'800». Osvaldo Squassina, ex segretario bresciano della Fiom, esperto di salari e buste paga, scuote la testa. Questa storia del rinnovo dei modelli contrattuali attraverso un forte riequilibrio a favore dei contratti aziendali non lo convince proprio. E come lui molti sindacalisti che anche da posizioni "di destra" hanno sempre guardato al vincolo di solidarietà tra lavoratori come allo strumento fondamentale per la garanzia dei diritti elementari, primo fra tutti quello a non trovarsi costantemente sotto il ricatto individuale. «Innanzitutto, chi oggi parla di spostare l'accento nei rapporti aziendali - aggiunge Squassina - non si rende conto che il primo e il secondo livello di contrattazione sono due facce di una stessa medaglia. Dal punto di vista del lavoratore, se si depotenzia la prima anche la seconda sarà più debole». Difficile dargli torto, soprattutto se si pensa al fatto, storico, che il contratto nazionale nel "biennio rosso" nasce esattamente come tentativo di fare massa critica, di non farsi più "circondare" dai padroni fabbrica per fabbrica.
Un altro elemento da notare, secondo alcuni esperti di diritto del lavoro, è che la fine del contratto nazionale potrebbe avere tra le sue conseguenze anche effetti anticostituzionali, laddove si parla di parità di salario a parità di lavoro. Se, a partire dal maggior peso del contratto aziendale, infatti, si dovesse arrivare alle "gabbie salariali", il rischio di una corsa al ribasso del costo del lavoro potrebbe portare a fortissime differenze nella busta paga per aree e quindi anche nelle stesse categorie.
Un pericolo ben presente agli stessi imprenditori. E' lo stesso Carlo Dell'Arringa sul "Sole 24 ore" di ieri a vedere nella «rete protettiva dei salari minimi, sotto la quale non è socialmente opportuno scendere» una possibile soluzione a questo problema. A dire la verità i commi costituzionali dell'articolo 36 a rischio sarebbero due, compreso quello della retribuzione sufficiente «ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa a tutti i lavoratori e alle loro famiglie».
«La determinazione del salario minimo - sottolinea ancora Squassina - è una cosa difficilissima che di fatto è in vigore proprio nei paesi dove non c'è un contratto nazionale. Sarebbe una gestione tutta politica della lotta sindacale e della rivendicazione dei lavoratori».
Anche Nicola Nicolosi, leader di Lavoro Società, sottolinea l'estrema difficoltà a dipanare un nodo di questa portata. «A quel punto vuol dire che passeremmo da un modello rivendicativo a uno redistributivo». «Voglio sottolineare però - aggiunge - che nei paesi dove è in vigore il modello redistributivo attribuisce al salario una fetta di ricchezza nazionale di almeno dieci punti maggiore rispetto a quella italiana attualmente ferma al 40%». «La funzione del contratto nazionale - conclude Nicolosi - gioca un ruolo fondamentale nell'assetto democratico del paese e a guardar bene la storia è stato, insieme alla scuola e alla televisione, l'unica esperienza non retorica e celebrativa dell'unità del paese».
Per Danilo Barbi, segretario generale della Cgil dell'Emilia Romagna, il nodo del confronto con gli imprenditori non si può far risalire unicamente all'equilibrio tra primo e secondo livello del contratto. «Il panorama è piuttosto frastagliato - dice - perché ci sono anche quelli che non vogliono il contratto aziendale, come nel commercio, o addirittura, come nell'artigianato, che spingono per quello regionale». «E' indubbio - continua Barbi - che l'equilibrio tra contratto aziendale e contratto nazionale è in discussione, ma la battaglia è per la contrattazione tout court». Per Barbi, comunque, il contratto nazionale è quello che ha «promosso le condizioni di miglioramento sociale e collettivo dei lavoratori». E non solo da un punto di vista economico.
Contro la revisione dei modelli contrattuali, infine, anche il mondo del sindacalismo di base è in movimento. Il 17 a Milano è prevista una grande assemblea di delegati e delegate. Cinque i punti all'ordine del giorno: salari, sicurezza, precarietà, rappresentanza e concertazione. «Il problema del contratto nazionale - sottolinea Paolo Leonardi - è il suo rafforzamento perché così come è non fa altro che dare un po' di salario in cambio della cessione di diritti».