giovedì 6 marzo 2008

Il "merito" di Ichino

Da Resistenze.org.

www.resistenze.org - proletari resistenti - lavoro - 28-02-08 - n. 217

Il “merito” di Ichino
Domenico Moro
Recentemente si è saputo che la Nokia sposterà la sua produzione tedesca di cellulari in Romania. Quasi contemporaneamente il Financial Times ha rivelato che la produttività dei lavoratori tedeschi è quasi cinque volte quella dei romeni, quasi 50 dollari all’ora contro circa 12. Leggendo tali notizie, emerge la evidente contraddizione tra questi fatti e la polemica che Andrea Ichino da tempo porta avanti dalle pagine dei maggiori quotidiani italiani, come il Sole 24ore, espressione della Confindustria, per legare la retribuzione alla produttività.
Obiettivo di tale battaglia, a detta di Ichino, sarebbe l’aumento della produttività stessa, al cui basso livello vengono imputate le difficoltà dell’economia italiana, e la cui causa risiederebbe negli scarsi incentivi ai lavoratori bravi e volenterosi, i quali ricevono, invece, lo stesso salario di quelli pigri e incapaci. Se tale ragionamento fosse vero, la decisione della Nokia risulterebbe non molto razionale. In realtà, così non è. Anzi, il caso della Nokia dice molto sui meccanismi reali di funzionamento delle imprese e del moderno capitalismo. Ma andiamo per ordine.
Innanzi tutto, l’obiettivo del capitale non è la produttività in sé, ma l’aumento dei profitti. Infatti, la produttività – secondo la definizione corrente - non è altro che il valore in denaro prodotto mediamente in un’ora dal singolo lavoratore. Il profitto, invece, essendo la differenza tra tutti i costi di produzione – compreso il salario dei lavoratori – ed il prezzo di vendita del prodotto, è quello che veramente importa ai fini del bilancio aziendale.
Ritornando alla Nokia, se questa sposta la produzione in Romania è perché lì i profitti risultano più alti, dal momento che i salari orari sono più bassi, per l’esattezza 4 euro contro i 28 della Germania, compensando così ampiamente la minore produttività oraria. I bassi salari sono stati, per l’appunto, la leva competitiva principale anche per il padronato italiano negli ultimi 20 anni, cioè da quando la capacità negoziale del lavoro si è drasticamente ridotta. Risultati ne sono stati un salario nominale ora tra i più bassi d’Europa ed un salario reale andatosi riducendo fino a rendere difficile, per molte famiglie, arrivare alla cosiddetta “terza settimana”.
Ma, oggi, agire sul salario non basta più, perché in un mercato mondializzato competere sul salario coi paesi dell’Europa orientale e soprattutto dell’Estremo Oriente non è più possibile. Eppure, c’è chi continua a voler cavare sangue dai lavoratori, come fossero rape. Pretendere di aumentare la produttività, legandola direttamente al salario, non è altro che questo. Ma, in Italia la proposta di Ichino, oltre a produrre un danno, ha il sapore della beffa. Infatti, parlando di produttività dobbiamo intendere sia quella oraria sia quella assoluta. Quest’ultima deriva anche dalla lunghezza della giornata lavorativa, che, per l’appunto, è in Italia più lunga che nel Nord Europa, anche per il ricorso massiccio agli straordinari. Vi ricordate, al proposito, da quante ore erano al lavoro, al momento dell’”incidente”, gli operai morti alla Thyssen Krupp di Torino?
Invece, l’aumento della produttività oraria dipende da due fattori: l’aumento dell’intensità (i ritmi di lavoro) e l’aumento della forza produttiva del lavoro. L’aumento della prima è più facile da ottenere, in tempi di facile ricattabilità dei lavoratori. La seconda richiede, invece, elevati investimenti in nuovi macchinari, in miglioramenti dell’organizzazione del lavoro, e, quindi, in ricerca e sviluppo. Tali investimenti si traducono non solo in processi lavorativi più efficienti, ma anche in prodotti migliori e più competitivi, oppure più adeguati a soddisfare nuovi bisogni, tutti fattori su cui l’industria italiana ha segnato il passo negli ultimi anni. Cose che costano, e per questo in Italia, dove la media delle imprese ha dimensioni inferiori, ad esempio, a quelle tedesche (ma il discorso mutatis mutandis vale anche per la grande impresa italiana che ha sempre speso poco in R&S), si è preferito fare maggiore affidamento su salari bassi, straordinari e aumento dei ritmi di lavoro.
In questo modo, le quote di mercato delle imprese italiane sui mercati internazionali si sono ridotte, ma, in compenso, i profitti sono cresciuti, visto che i salari relativi si sono ridotti, cioè si è ampliato il divario relativo tra i salari ed i profitti. L’elemento da cui partire è che l’impresa capitalistica non compra dal lavoratore il prodotto già bello e fatto, ma il suo tempo di lavoro, nel quale interviene, modificandone le condizioni di sfruttamento, ai fini dell’aumento del profitto. Ciò risulterebbe ancor più vero nel caso in cui, come di fatto propone Ichino, si reintroducesse il salario a “cottimo”, che non è altro che la forma di salario più adeguata agli interessi dell’impresa, adeguata cioè ad aumentare l’intensità del lavoro ed il suo sfruttamento, rendendo, in sovrappiù, superfluo il controllo sul lavoro operaio da parte dell’impresa. Sarebbe il lavoratore a stesso a controllarsi da solo, nel tentativo di raggiungere un livello adeguato di salario, che comunque tenderebbe a crollare, perché la moltiplicazione della tensione lavorativa applicata alla produzione renderebbe superfluo l’ingresso di nuovi lavoratori e, quindi, aumenterebbe i disoccupati ed i sottoccupati, con il conseguente aumento della pressione sul mercato del lavoro e sui livelli salariali.
Ma, con buona pace di Ichino, le aziende hanno già introdotto criteri di valutazione che legano gli aumenti di retribuzione (ormai sempre più necessari solo per mantenere il potere d’acquisto), estendendoli anche a funzioni che poco hanno a che fare sia direttamente che indirettamente con la manifattura. E’ proprio in questi casi che si osserva meglio quanto questi criteri non siano legati al raggiungimento della produttività, ma al mantenimento della disciplina e della gerarchia all’interno delle aziende. Infatti, non è possibile definire “oggettivamente” e quantitativamente la produttività per lavori “immateriali” o per lavori legati ai servizi alla persona. Il “merito” diviene così un qualcosa ancora di più definibile solo “soggettivamente”, cioè secondo il punto di vista dell’azienda.
Dulcis in fundo, quando Ichino parla di legare il merito alla retribuzione è solito partire dal settore pubblico, anche perché è consapevole che i disservizi statali sono per molti, anche fra i lavoratori, oggetto di critiche feroci. Si tratta di una mossa furba, che mira a fare breccia nel fronte dei lavoratori, colpendolo nel punto “debole”, per poter estendere certi principi regressivi a tutti. Però, tale mossa non tiene conto di alcuni fatti. Se il pubblico presenta delle inefficienze, queste sono dovute, in primo luogo, alle scarse risorse ad esso dedicate oppure al modo irrazionale in cui vengono gestite. Tali inefficienze non possono essere imputate ai lavoratori, ma al modo, ancora clientelare ed inefficiente, in cui il lavoro viene organizzato. Né l’introduzione di criteri privatistici nel pubblico, come l’esternalizzazione di molte funzioni, ha migliorato i servizi, ma ha semplicemente peggiorato e reso precarie le condizioni di molti lavoratori, offrendo a imprese e potentati vari nuove occasioni di arricchimento.
Il “merito” di Ichino, evidentemente agli occhi di chi lo sostiene, è quello di attaccare due principi essenziali su cui si sono rette le relazioni sindacali. Il primo è quello secondo cui il rapporto tra il salario e il profitto è basato sui rapporti di forza esistenti tra classi sociali, per questa ragione oggettivamente antagonistiche. Il secondo è che il miglioramento delle condizioni salariali non passa attraverso il riconoscimento di un “merito” individuale, ma attraverso la negoziazione e la lotta collettiva.
Si tratta, in definitiva, di un altro tassello dell’offensiva contro la contrattazione collettiva, una delle ultime posizioni tenute dai lavoratori. Oggi, anziché introdurre strumentali divisioni tra lavoratori “fannulloni” e “laboriosi” sarebbe, invece, il caso di ragionare in termini di unificazione delle lotte di tutti i lavoratori europei, costruendo un sindacato veramente europeo, e rivendicando un salario minimo a livello Ue. Del resto, proprio l’aumento della richiesta di lavoratori, seguita allo spostamento di molte produzioni all’est, sta alzando i livelli salariali in questi paesi. Infatti, in termini reali i salari in Polonia sono cresciuti negli ultimi nove mesi del 7% ed in Romania addirittura del 16%.
Pubblicato anche, in versione ridotta, su La Rinascita e Aprile on line.

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